Fonte: Futura - pag. 2
31/01/2008
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Se l’imprenditore è una garanzia
Nell’industria di oggi non esiste una sola etica, ma ne esistono due. Una è quella dell’impresa che ha al centro un imprenditore in carne ed ossa, mentre l’altra è quella dell’azienda che non ce l’ha. C’è una grandissima differenza, perché quando ci sono gli uomini con delle facce (e non solo delle facciate di palazzi) a prevalere è la loro stessa etica. Sono persone che hanno immaginato e costruito la loro azienda, che amano quello che fanno e amano quelli con cui lo fanno. Amano l’azienda. Fino a quando al vertice c’è un individuo, l’etica è filtrata dai suoi valori. Sono convinto che se una persona non è fatta così, se non ha in sé certi principi morali, non riuscirà mai a fare l’imprenditore nel vero senso della parola. Magari sarà in grado di fare soldi, ma non costruirà mai un’impresa, non convincerà tre persone a diventare mille. Credo anche che le aziende, oggi, abbiano un’elevatissima importanza sociale e che sia giusto che, a un certo punto, si stacchino dal singolo proprietario per diventare pubblic company, imprese pubbliche. Tuttavia, quando ciò accade è necessario che il senso etico della persona-imprenditore sia sostituito da appositi codici che ne regolino le attività in ogni singolo settore. Le industrie sanno di avere limiti di controllo, soprattutto quando, attraverso degli intermediari, affidano la produzione a paesi emergenti. È lì che intervengono i codici di autodisciplina: l’azienda lo deve insegnare alle persone con cui si rapporta, deve inserire clausole di rescissione nei loro contratti se le regole non vengono rispettate. Eventualmente deve sporge denuncia. Se vendi un prodotto, lo marchi, lo pubblicizzi, i tuoi valori vengono trasferiti su quel prodotto, nel bene o nel male. Un tempo le aziende erano verticali: al piano di sopra c’era la tessitura, sotto il taglio, poi c’era chi cuciva, controllava, stoccava. L’etica era tutta lì, in quella struttura così compatta. Oggi, invece, gli operai sono in tutto il mondo, cambiano ogni sei mesi. Eppure il prodotto deve essere garantito allo stesso modo in ogni passaggio della filiera. Nel 1999 i produttori, le organizzazioni sindacali e l’Onu hanno stilato un codice di autodisciplina contro lo sfruttamento e per il rispetto dei diritti umani dei lavoratori nei paesi in via di sviluppo. È un sistema di regole che noi, come Basicnet, applichiamo in tutto e per tutto. Tutte le grandi aziende applicano questo insieme di norme condivise. Chi non segue questi principi lo fa perché dispone di un proprio codice ancora più rigoroso. L’etica interessa tutta una serie di aspetti della vita aziendale. Il dilemma più tipico è il rispetto della legge. Esistono paesi in cui il rigore amministrativo e fiscale è ancora una scelta, mentre in altri è la norma. Negli Stati Uniti chi non paga le tasse è considerato un poco di buono, non un furbo. Rispettare le regole significa credere nella forza dell’azienda, nelle sue capacità di essere competitiva. C’è anche chi fa un uso distorto dell’etica, legandola alle vendite. Ci sono industrie che promuovono iniziative del tipo “se compri questa maglietta doni un euro a qualcuno”. È sbagliato. Come si dice, la carità si fa pure che non si sappia. Altrimenti non è carità, ma pubblicità fatta sulla pelle dei poveracci. Investire nell’etica non significa prevenire eventuali danni di immagine, ma anzi vuol dire impegnarsi affinché i problemi non si manifestino mai. Non occorre impiegare risorse ed energie in strategie difensive, perché investire sull’etica paga, soprattutto nel lunghissimo termine. Paga e strapaga. Non ha senso dire ad un ragazzo “non drogarti perché poi i tuoi genitori ti sgridano”, lui non deve farlo perché distrugge la propria salute. Lo stesso discorso può essere fatto ad un’impresa: bisogna avere una condotta morale impeccabile perché in ballo c’è la salute dell’azienda e non perché altrimenti si infrangerebbero le regole. I principi morali valgono anche nel rapporto con i propri dipendenti. Recentemente Walter Veltroni ha detto: “L’imprenditore è un lavoratore”. Qualcuno ne dubitava? Forse c’è ancora qualcuno che crede che sia uno sfruttatore, un furbacchione. Invece è un lavoratore con una grande responsabilità sociale ed una forte tensione emotiva. Alle scuole elementari dovrebbero insegnare che fare l’imprenditore è figo, e non solo che lo è fare il calciatore, il politico, il cantante o la velina. Bisogna evitare le contrapposizioni perché dirigente e operaio devono sentirsi sulla stessa barca e lavorare per farla funzionare meglio.
Marco Boglione Presidente di BasicNet
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