giovedì 17 marzo 2011

ITALIA......un grazie a colui di cui si parla poco!!

Carlo Pisacane: l’Italia diversa che volevo liberare…
Scritto da Carlo Pisacane
mercoledì 16 marzo 2011
In procinto di lanciarmi in una impresa così rischiosa, voglio rendere note al paese le mie opinioni, per contrastare il volgo sempre disposto ad applaudire i vincitori ed a maledire i vinti. I miei principi politici sono abbastanza conosciuti: io credo nel socialismo, che è l’avvenire inevitabile e prossimo dell’Italia e forse di tutta Europa. Ma in un socialismo diverso dai sistemi fondati sull’idea monarchica o dispotica. Il socialismo di cui io parlo può riassumersi con queste due parole: libertà ed associazione. Ho la convinzione, che le strade ferrate, i telegrafi elettrici, le macchine, i miglioramenti dell’industria, tutto ciò infine che tende a sviluppare e facilitare il commercio, è destinato, secondo una legge fatale, a render povere le masse, finché non si operi la ripartizione dei profitti, per mezzo della concorrenza. Tutti questi mezzi aumentano i prodotti, ma li accumulano in poche mani, per cui tutto il vantato progresso non si riduce che alla decadenza. Se si considerano questi pretesi miglioramenti come un progresso, sarà nel senso che, con l’aumentare la miseria del popolo, essi lo spingeranno infallibilmente ad una terribile rivoluzione che, mutando l’ordine sociale, metterà a disposizione di tutti ciò che ora serve all’utile solo d’alcuni. Ho la convinzione che i rimedi moderati, come il regime costituzionale del Piemonte e le riforme accordate alla Lombardia, lungi dall’accelerare il risorgimento d’Italia non possono fare che ritardarlo. Quanto a me, non m’imporrei il più piccolo sacrificio per cambiare un Ministero o per ottenere una Costituzione, neppure per cacciare gli Austriaci dalla Lombardia e riunire al regno della Sardegna questa provincia: io credo che la dominazione della Casa d’Austria e quella di Casa Savoia siano la stessa cosa.

Credo, al pari, che il governo costituzionale del Piemonte sia più nocivo all’Italia che non la tirannia di Ferdinando II. Credo fermamente che, se il Piemonte fosse stato governato nella stessa maniera che gli altri Stati italiani, la rivoluzione d’Italia a quest’ora si sarebbe fatta.

Questa decisa opinione si venne formando in me per la profonda convinzione che io ho, essere una chimera la propagazione dell’idea, e un’assurdità l’istruzione del popolo. Le idee vengono dietro ai fatti e non viceversa; e il popolo non sarà libero perché sarà istruito, ma diverrà istruito quando sarà libero. L’unica cosa che possa fare un cittadino, per essere utile alla sua patria, è l’aspettare che sopraggiunga il tempo in cui egli potrà cooperare a una rivoluzione materiale. Le cospirazioni, i complotti, i tentativi d’insurrezione, sono a mio avviso la serie dei fatti attraverso ai quali l’Italia va alla sua meta (l’unità). L’intervento delle baionette a Milano ha prodotto una propaganda ben più efficace che non mille volumi di scritti di dottrinari, che sono la vera peste della nostra patria e di tutto il mondo.

Vi sono taluni che dicono, la rivoluzione debba essere fatta dal paese. Questo è incontestabile. Ma il paese si compone d’individui; e se tutti aspettassero tranquillamente il giorno della rivoluzione senza prepararla col mezzo della cospirazione, giammai la rivoluzione scoppierebbe. Se invece ognuno dicesse: “la rivoluzione deve effettuarsi dal paese, e siccome io sono una parte infinitesima del paese, spetta anche a me il compiere la mia infinitesima parte di dovere, e io la compio; la rivoluzione sarebbe immediatamente compiuta, e invincibile, poiché sarebbe immensa.

Si può dissentire intorno alla forma di una cospirazione circa il luogo e il momento in cui debba effettuarsi; ma il dissentire intorno al principio è un’assurdità, una ipocrisia; torna lo stesso che nascondere in bella maniera il più basso egoismo. Io stimo colui che approva la cospirazione senza prenderne parte; ma non posso che nutrire disprezzo per coloro che non solo non vogliono far nulla, ma si compiacciono di biasimare e maledire coloro che operano.

Coi miei principi io avrei creduto di mancare al mio dovere se, vedendo la possibilità di tentare un colpo di mano sopra un punto bene scelto e in favorevoli circostanze, io non avessi impiegato tutta la mia energia nell’eseguirlo e condurlo a buon fine. Non pretendo già, come alcuni oziosi per giustificare sé stessi mi accusano, di essere il salvatore della mia patria, no; io sono però convinto, che nel mezzogiorno d’Italia la rivoluzione morale esiste; che un impulso gagliardo può spingere le popolazioni a tentare un movimento decisivo; ed è appunto per questo che ho impiegato le mie forze per compiere una cospirazione che deve imprimere questo impulso.

Se io giungo sul luogo dello sbarco, che sarà Sapri, credo che avrò con ciò ottenuto un grande successo personale, dovessi poi anche dopo morir sul patibolo. Da semplice individuo quale sono, sebbene sostenuto da un numero abbastanza grande di uomini, io non posso fare che questo, e lo faccio. Il resto dipende dal paese, non da me. Io non ho che la mia vita da sacrificare per questo scopo, e non esito a farlo.

Sono persuaso che, se l’impresa riesce, otterrò gli applausi di tutti; ma se soccombo, sarò biasimato dal pubblico. Forse mi chiameranno pazzo, ambizioso, turbolento: e tutti coloro che, non facendo mai nulla, consumano l’intera vita nel detrarre gli altri, esamineranno minutamente l’impresa; metteranno in chiaro i miei errori, e mi accuseranno di non esser riuscito per mancanza di spirito, di cuore, di energia. Sappiano tutti codesti detrattori, che io li considero non solo come affatto incapaci di fare ciò che io ho tentato, ma incapaci finanche di concepirne l’idea.

Rispondendo poi a coloro che chiameranno impossibile il compito, dico che se prima di effettuare simile impresa si dovesse ottenere l’approvazione di tutti, sarebbe meglio rinunziarvi; dagli uomini non si approvano anticipatamente fuorché i disegni volgari: pazzo si chiamò colui che in America tentò il primo esperimento di un battello a vapore, e si è dimostrato più tardi l’impossibilità di attraversare l’Atlantico con questi battelli. Pazzo era il nostro Colombo prima ch’egli scoprisse l’America, ed il volgo avrebbe trattato da pazzi e da imbecilli Annibale e Napoleone, se avessero dovuto soccombere l’uno alla Trebbia e l’altro a Marengo.

Io non ho la presunzione di paragonare la mia impresa a quella di quei grandi uomini, però vi si rassomiglia per una parte; giacché sarà oggetto della universale disapprovazione se mi fallisce, e dell’ammirazione di tutti se mi riesce. Se Napoleone, prima di lasciare l’Isola d’Elba per sbarcare a Frèjus con 50 granatieri, avesse domandato consiglio, il suo concetto sarebbe stato unitamente disapprovato. Napoleone possedeva ciò che io non posseggo, il prestigio del suo nome; ma io riannodo intorno al mio stendardo tutti gli affetti, tutte le speranze della rivoluzione italiana. Tutti i dolori e tutte le miserie dell’Italia combattono con me.

Non ho che una parola da aggiungere: se io non riesco, sprezzo altamente il volgo ignorante che mi condannerà; se riesco, farò ben poco caso ai suoi applausi. Tutta la mia ricompensa la troverò nel fondo della mia coscienza, e nell’animo dei cari e generosi amici che mi hanno prestato il loro concorso, e che hanno diviso i miei palpiti e le mie speranze. Che se il nostro sacrificio non porterà alcun vantaggio all’Italia, sarà per essa almeno una gloria l’aver generato figli che, volenterosi, s’immolarono pel suo avvenire.

Carlo Pisacane

Genova 24 Giugno 1857

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